Atmosfere sospese e pulsanti accelerazioni. Voci ondeggianti delle pelli dei tamburi, intarsi di flauti e ance, il canto melismatico di Marzouk Mejri, polistrumentista tunisino (nay, mezued, zukra, darbuka, bendir, tar) da quindici anni a Napoli, sferzate di free jazz, funky e progr rock, tocchi di elettronica, di dub e reggae che si innestano su forme e ritmi popolari dello stambeli, sui modi nobili del malouf, su espressioni del misticismo sufi.
Punti cardinali diversi quelli su cui si fonda lo spettacolo del Marzouk Ensemble, combo dal suono fortemente internazionale, con Charles Ferris (tromba), Gigi Scialdone (basso), Pietro Santangelo (sassofoni), Sasà Priore (tastiere), Marcello Giannini (chitarre). Note e liriche che dichiarano un’appartenenza forte alla millenaria cultura musicale maghrebina ma sanno anche in maniera ardente affrontare tematiche esistenziali, istanze sociali e politiche dell’oggi, come avviene con la ripresa dei versi del poeta tunisino Abulkasem Eschebbi, feroce oppositore, con le armi della parola, della tirannide tunisina e del colonialismo francese. Canti d’amore, di fede, di coraggio nell’affrontare la vita.
Lo spettacolo proposto dal Marzouk Ensemble è un concerto di incontri, una pratica sonora pienamente world, che non significa banalità globali patinate travestite da esotismo etnico, ma confluenza di umori sonori e provenienze geografiche, pervasa da marcata spiritualità ma animata da una chiara impronta metropolitana. Un giardino di suoni (Genina, che significa giardino in arabo, è il titolo del disco d’esordio ma anche il nome della madre di Marzouk) che si combinano in un’interazione inedita fra ritmi, strumenti e modalità musicali.